Siccome domenica c’è la sfida del Team Pesenti al passo di Croce Domini, partendo da Bergamo, ho cercato di prepararmi in modo decente. Da febbraio a oggi ho percorso duemila e trecento chilometri, non molti, ma neppure pochi.

Martedì scorso sono partito da casa, a Bergamo, e sono andato al passo di San Marco, da solo. Ero dubbioso: il San Marco non è uno scherzo e andarci senza compagnia mi dava qualche preoccupazione. Sono partito alle 7.10 con un pacchetto di biscotti nella tasca, due borracce di acqua e limone. Subito fatica, già in via Baioni, e sulla Ramera. Mi sono detto che forse era meglio salire alla Marianna a bere un cappuccino, magari con un amico e fare due belle chiacchiere. Ma ho tirato dritto.

Faticaccia anche prima di Sedrina, con un bel vento fresco contrario. Un gran traffico di giorno feriale, ma ciclisti niente.  Zogno, San Pellegrino, San Giovanni Bianco… a San Giovanni ho raggiunto un ciclista di Osio che andava a fare il giro del lago di Lenna. Abbiamo chiacchierato un po’. Gli ho detto che andavo al San Marco, ma che ero incerto. Lui mi ha raccontato che era stato fermo quindici giorni perché era andato sul Mar Rosso, che gli piaceva immergersi in quelle acque di paradiso, che ha persino incontrato lo squalo bianco.

Io ho pensato che il paesaggio delle Bahamas era il paesaggio di Bergamo 200 milioni di anni fa. Oceano caldo e isolette. Ci siamo salutati all’ingresso di Lenna, ho preso a sinistra per Piazza Brembana. Sulla salitella male alle gambe, soprattutto il quadricipite sinistro, come sempre. E ho pensato: magari arrivo a Mezzoldo e torno indietro, è già un allenamento notevole. E così sono arrivato a Olmo al Brembo dove ho fatto una sosta “tecnica”.

Ho preso il tempo: erano le nove. E via a pedalare di nuovo. A Mezzoldo, al cimitero, a quattordici chilometri dal passo, erano passati venti minuti, le nove e venti. E su ancora, con l’incubo della salita nel bosco, con quei tratti al quindici per cento. Ho pensato: arrivo al Pian dell’Acqua e poi torno a casa. E in effetti con il trentanove per ventisette è stata dura nei tratti più difficili, ho dovuto persino zigzagare un po’.

A Mezzoldo ho incontrato un paio di persone, per il resto silenzio totale, cullato soltanto dal suono del Brembo, dei ruscelli, dai fischi degli uccelli nel bosco. Splendeva un gran sole, ma mi ero messo la crema, protezione cinquanta, sulla faccia e sulle braccia. Quando sono arrivato a quegli strapponi nel bosco in effetti ho pensato che il Pian dell’Acqua era una buona meta, e quando ci sono arrivato ho pedalato nel falsopiano godendomi tutto quel verde, quel silenzio.

Alberghi, il rifugio Madonna della Neve, non un’anima in giro. E ho deciso di andare avanti. Subito c’è quel tornante a sinistra e poi un altro a destra che ti levano il fiato, a picco sotto il sole. Ho guardato il cartello, diceva che ero a 1350 metri, ho pensato che ce n’erano ancora seicento, un bel Selvino, insomma. Soltanto un Selvino. Potevo farcela.

Mentre salivo guardavo l’asfalto, ogni tanto alzavo gli occhi e vedevo queste grandi montagne, i pendii verdi. Mi sono accorto che stavo recitando una preghiera, fra me. Altri tornanti, alcune stalle. E poi ho incontrato due ciclisti, non ricordo da dove venissero, salivano piano, ma erano contenti, ci siamo salutati, uno mi ha detto: “Facevo meno fatica quando lavoravo”. Non c’è dubbio.

Ho visto il rifugio nuovo, poi l’antica Cà San Marco, sulla sinistra. Ancora cento metri di dislivello, la strada che si impenna, mi sono alzato sui pedali, ho maledetto quel trentanove per ventisette troppo duro e sono arrivato al passo. Erano le dieci e quarantuno minuti. C’erano due motociclisti svizzeri, qualche nuvola copriva il sole, l’aria era freddina. Ho infilato lo smanicato e giù, per la lunga discesa, con la bicicletta che prendeva velocità in modo impressionante.

Mi è venuto in mente un mezzogiorno di quindici o sedici anni fa, quando salii sul San Marco con un cielo nero che minacciava pioggia: quando cominciai a scendere si scatenò l’acquazzone. Arrivai con il mio amico Eugenio al Pian dell’Acqua, non riuscivo più a muovere le mani e i piedi dal freddo, ci ospitarono in un alberghetto, il camino era acceso. Ci diedero una una salvietta, una maglietta asciutta,  dei fogli di giornale per proteggerci dall’aria fredda.

Non vollero niente in cambio. Smise di piovere e partimmo nell’aria fredda che sapeva di pioggia e di pini.

Paolo Aresi

Paolo Aresi

Paolo Aresi – giornalista e scrittore.
Dal 2015 cura la rubrica “#AMOLABICI, le Cicloctorie di Paolo Aresi” sul sito www.bicitv.it.
Il ciclismo è una sua grande passione, ha trascorso l’infanzia tifando Felice Gimondi.
Pedala con una certa energia, ma il poco tempo a disposizione lo penalizza.