Come da tradizione, per milioni di appassionati l’arrivo della bella stagione fa rima con l’entrata nel vivo del calendario ciclistico. La Milano-Sanremo – la “Classica di Primavera”- dà il via alla primavera ciclistica e, transitando per il pavé ed il fango belga, ci conduce fino al giro d’Italia.

Facendo scorrere l’elenco delle 18 squadre invitate di diritto all’edizione numero 100 della Corsa Rosa –la corsa a tappe più bella del mondo- fa specie non incontrare alcun team italiano. Con l’ultimo abbandono da parte della Lampre, finisce l’epopea dei marchi italiani legati a doppio filo con le due ruote come nel caso di Bianchi, Carrera o Polti. Ricordo come per noi bambini a fine degli anni ‘90 “Mapei”- con la buona pace di Squinzi & Co- altro non fosse che una squadra di ciclismo. E provi ad alzare la mano chi alla voce “Mercatone Uno” viaggi con l’immaginazione verso una cucina invece che pensare a Marco Pantani con le braccia alzate sull’Alpe d’Huez.

Così come non vediamo all’orizzonte nessuno in grado di farci alzare sul divano come il Pirata, il quadro dei marchi storici legati al ciclismo italiano sembra essere caduto in una spirale incontrovertibile. E questo nonostante il fatto che ad oggi i ciclisti italiani siano i più numerosi all’interno del mondo World Tour, il gotha del ciclismo mondiale. “Distratti da un calcio sempre più globalizzato, e da altri sport più futuribili, non ci siamo accorti che anche il ciclismo è in fuga”.

A dire il vero, questo ritratto va contestualizzato all’interno di un progressivo ampliamento globale che ha investito la maggior parte degli sport. A differenze del ciclismo, il mondo degli affari nel calcio deve necessariamente dialogare- spesso in termini oppositivi- con il radicamento territoriale per cui una squadra è parte integrante della città dove gioca. Nel caso del ciclismo invece- se escludiamo alcuni feudi inossidabili sparsi per il Belgio- questa dimensione è storicamente assente, proprio perché non si tifa solitamente una squadra ma un corridore, e non “si gioca in casa” ma si corre per strada.

Visto lo storico appeal ed il buon numero di corse e corridori – entrambi a dire il vero sempre più “a rischio tagli”- l’Italia resiste come patria storica del ciclismo al pari di Francia e Belgio. Invece che scomparire, il modello italiano – composto da corridori, tecnici, manager ed organizzatori- è migrato negli ultimi anni e l’ha fatto verso luoghi impensabili fino a pochi anni fa. Australia, Kazakistan, Canada e Russia sono solo alcuni dei paesi che negli ultimi anni sono entrati nel gotha del ciclismo mondiale dalla porta principale, attraverso l’organizzazione di nuove corse e l’entrata di sponsor spesso legati ai governi nazionali. Rispetto a ciò, considerando le nuove traiettorie del fòbal (calcio in dialetto bresciano ndr) a partire dagli anni Duemila, un calciofilo potrebbe chiedersi: che parte fanno i paesi del Golfo?

La nuova geografia del ciclismo mondiale

Il “grande ciclismo” fa i suoi primi passi nella regione solo nel 2002, e lo fa entrando dalla porta principale, da quel Qatar che negli ultimi anni si è imposto a livello mondiale per l’acquisizione di diverse società sportive calcistiche e che- tra mille dubbi e polemiche- ha ospitato i mondiali di ciclismo nel 2016 e ospiterà nel 2022 i mondiali di calcio. Da una piccola corsa a tappe attorno a Doha, la geografia del ciclismo nel golfo si è allargata in pochi anni all’Oman (2010), a Dubai (2014), fino al debutto dell’Abu Dhabi Tour nel 2015. Nonostante fosse il più giovane, il Giro degli Emirati- organizzato in collaborazione dagli italiani di RCS Sport responsabili della Corsa Rosa- si è da subito imposto come uno degli appuntamenti più importanti d’inizio stagione.

Nel 2017, a fronte dell’annullamento del Tour of Qatar per una dichiarata “mancanza di sponsor”, l’Abu Dhabi Tour di fine febbraio è divenuta tappa obbligatoria del calendario World Tour in avvicinamento alle grandi classiche di primavera. Sole e clima ideale per correre mentre in Europa è pieno inverno, logistica impeccabile, accoglienza di lusso e premi ricchissimi: il Golfo è ormai parte imprescindibile della geografia del ciclismo mondiale.

uae team emirates

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Bahrain ed Emirati Arabi: il ciclismo cambia faccia

L’edizione 2017 dell’Abu Dhabi Tour Tour ha visto trionfare sulla linea d’arrivo il portoghese Rui Costa, campione del mondo nel 2013 a Firenze. Se la cerimonia d’onore ospitava quindi un habitué del podio, la novità era invece rappresentata dalla maglia indossata da Rui Costa: il portoghese è infatti una delle punte di diamante della nuova formazione targata UAE-Emirates. Quella di Rui Costa è quindi un esordio con vittoria “in casa” per la formazione finanziata grazie ai fondi del Kapaoniik Property Investment LLC, compagnia gravitante attorno agli Emirati Arabi Uniti con il contributo della compagnia aerea di Stato.

All’interno del World Tour, l’esordio della formazione UAE-Emirates fa il paio nel gruppo con le maglie rosse del team Bahrain Merida Pro Cycling Team, presentato ad inizio 2017 nel palazzo reale alla presenza dello Sceicco Nasser Bin Hamad Al Khalifa. Il figlio maggiore dell’attuale sovrano, vero deus ex machina di questo nuovo progetto come del già contestato arrivo della Formula 1 nel Paese, non ha badato a spese e si è assicurato- tra gli altri- le prestazioni del più forte ciclista italiano in attività, Vincenzo Nibali. E lo Squalo non è altro che la punta di diamante in questo binomio italo-arabo che comprende – tra Bahrain e UAE- più di venti tra atleti, direttori sportivi e manager. Orlando Maini, uno dei direttori sportivi dell’UAE-Emirates team sottolinea: “è impegnativo rappresentare l’intero paese, l’obiettivo è dare la maggiore visibilità al team. Ok i risultati sono importanti, ma il nostro primo e principale obiettivo è dare l’immagine di gruppo unito dentro e fuori la corsa.

Sua Altezza lo Sceicco Nasser Bin Hamad Al Khalifa con la squadra Bahrain Merida

Sua Altezza lo Sceicco Nasser Bin Hamad Al Khalifa con la squadra Bahrain Merida

Dopo il petrolio

Ancora prima che i risultati o i riscontri economici immediati, il mondo del ciclismo deve essere quindi visto all’interno di una nuova politica d’immagine da parte dei Paesi del Golfo, legati finora univocamente a doppio filo con il petrolio. E non è un caso che le avanguardie siano costituite da Bahrain e Emirati Arabi Uniti, due tra i Paesi nel Golfo che per diversi motivi non fondano la fanno del petrolio il motore dei propri regni. Il team manager del team Bahrain-Merida, Brent Copeland, spiega come il team “ha deciso di investire nel ciclismo perché non c’è attività migliore di questa per farsi conoscere nel mondo. Daremo il massimo per promuovere al meglio questo paese (…) La nostra mission è trovare un ruolo di rilievo al Bahrain nella mappa del ciclismo. In quest’ottica, gli investimenti nello sport da parte del Bahrain sono strettamente connessi con quella di una casa reale in crisi economica e di legittimazione politica, come testimoniato dalle proteste che- a mo’ di ondate aritmiche- occupano le vie centrali di Manama a partire dal 2011.

Contestualmente, gli investimenti degli Emirati hanno a che fare con un nuovo modello della città nel mondo della diversificazione economica e sociale post-petrolio. In quest’ottica, a Dubai e dintorni il mondo delle due ruote sta prendendo sempre più piede sia tra migliaia di appassionati sia “locali” che tra i lavoratori stranieri. A proposito, l’azienda “di stato” Nakheel ha annunciato di voler incrementare altre centinaia di chilometri al sistema di piste ciclabili già presenti nei punti nevralgici della città. Nella stessa ottica promozionale concorre la promozione nel team UAE-Emirates di Yusif Mirza, primo ciclista “locale” ad aver riportato risultati più che discreti in alcune gare di World Tour.

Quali prospettive?

Il 2017 segna dunque l’entrata definitiva dei paesi del Golfo nel mondo del ciclismo mondiale. Resta da capire se si tratterà di un fuoco di paglia dettato da un capriccio dell’emiro di turno oppure- come accaduto nell’ambito calcistico- si tratterà di una strategia a medio-lungo termine che muoverà verso Oriente il centro gravitazionale delle due ruote.

Di certo quest’anno, come testimoniato dalla scomparsa dei marchi italiani, segna il tramonto definitivo del ciclismo tradizionale con cui siamo cresciuti. L’ultimo sport nostalgico – quello di Girardengo cantato da De Gregori, di Coppi e del partigiano Bartali fino al Pantani di Cesenatico capitano di una squadra romagnola- lascia spazio definitivamente a un ciclismo globale e multipolare. Astana, Mosca, Manama e Dubai sono alcune tra le nuove capitali del ciclismo: resta da capire se all’ampliamento della geografia dei capitali corrisponderà una parallela crescita del numero di cicloamatori e appassionati ai bordi della strada.

Come dimostrato dai milioni di tifosi ad assiepare i muri del Giro delle Fiandre, il mondo belga delle due ruote ha ribadito ancora una volta come il ciclismo sia parte integrante della vita culturale e sociale. E di come, nonostante il ricambio delle squadre, il ciclismo non sia proprietà esclusiva dei capitali ma bene comune di tutti gli spettatori, anche quelli occasionali. E la strada- almeno per ora- è lo stadio naturale del ciclismo, dove non si paga il biglietto e dove si assiepano appassionati incalliti tanto quanto semplici spettatori per cui il Giro d’Italia passa sotto casa. Proprio questa è la magia delle due ruote che- come ad annunciare l’arrivo dell’estate- a maggio si ripeterà per la centesima volta sulle nostre strade.

E’ che quel maggio fu il più straordinario, il più affascinante, e anche il primo e l’ultimo maggio d’infanzia. Perché chiunque parta col Giro diventa, per un mese, bambino (Anna Maria Ortese).

(articolo tratto da Leggeroleggero.com a firma Stefano Fogliata)