La guerra volgeva alla fine, ma il disastro di Caporetto costrinse a chiamare alle armi i “ragazzi del ’99” che, alla fine del 1917, avevano solamente diciotto anni. Fra questi c’erano anche dei ciclisti promettenti, uno di loro era Vittorio Bendoni di Comenduno, figlio di una famiglia piccolo borghese, benestante, i suoi erano proprietari di una tabaccheria e salumeria in paese. I genitori erano altresì molto religiosi, e dopo avere avviata al monastero la sorella, sognavano di vedere il loro Vittorio diventare prete, o frate.

Per questo lo spedirono alla Scuola Apostolica del Sacro Cuore, sopra l’abitato di Albino, sulla strada per Bondo Petello. Si racconta che il giovanissimo Vittorio durante la ricreazione si sfilasse la tonaca, l’appendesse a un ramo di albero e poi corresse giù, a rotta di collo, verso il paese; arrivato a casa saltava in sella alla sua bicicletta e scorrazzava per le vie. Era la sua vera vocazione.

I genitori dovettero arrendersi: meglio un ciclista felice che un prete triste. E così Vittorio fece le sue prime corse appena prima di venire chiamato al fronte. Veniva descritto come un tipo nervoso, magro. Anche aggressivo. E infatti le sue prime note biografiche raccontano che sulla tradotta militare che lo stava portando a Venezia, Vittorio litigò con un soldato francese che lo prendeva in giro e lo buttò giù dal vagone. A Venezia rispose malamente a due inglesi si burlavano dei soldati italiani per via di Caporetto, ne nacque un parapiglia: finì con i due inglesi che quasi annegavano in laguna.

Un tipetto, insomma.

Ebbe la fortuna di tornare a casa dal fronte. Si mise subito a correre, vinse alcune gare provinciali e si classificò al secondo posto nella Bergamo-Monza-Merate vinta dal fuoriclasse bergamasco dell’epoca, Eugenio Bernasconi. Correva per i colori dell’Atalanta, ma poi si aggregò all’Ucb, l’Unione Ciclistica Bergamasca e quindi alla Ucam (Unione ciclo, auto, moto) di Milano, con l’impegno di usare una bicicletta da corsa marca “Monza”, fornita gratuitamente, ma da restituire “a fine stagione”.

Era previsto anche un rimborso spese di cinquanta lire. Bendoni si mise subito in luce, trascinò la sua squadra a superare la fase eliminatoria della Coppa Italia. Nel 1925 vinse una delle gare più importanti di allora, la Coppa Del Grande, quindi si impose nella Coppa Miozzi. Entrò nel giro dei professionisti, andò ad allenarsi sulla Riviera Ligure con Girardengo, Negrini, Bestetti.

L’obiettivo era partecipare al Giro d’Italia di quel 1926. Tornò in Lombardia e vinse la prestigiosa Coppa Caldirola. Batté un velocista di valore come Michele Mara, che si distinse poi fra i professionisti vincendo allo sprint numerose gare. Tutto lasciava presagire un Giro d’Italia effervescente per Bendoni che si allenava in maniera coscienziosa.

Ma la vita fa i suoi conti senza chiedere permesso a nessuno, nemmeno al diretto interessato. Così in un giorno, verso la fine di marzo di quel 1926, Bendoni si stava allenando sulla strada per Brescia, all’altezza del Cassinone, con il compagno Zaverio Nava. Procedeva sul rettilineo quando, improvvisamente, un camion spuntò da una strada laterale e lo investì. Una gamba rimase sotto la ruota del veicolo. La medicina era quello che era, non esistevano gli antibiotici. Il verdetto fu terribile: bisognava amputare l’arto. Bendoni rifiutò l’operazione, disse che il ciclismo era la sua vita, che non poteva perdere la gamba. A ventisei anni. I medici accettarono di aspettare per qualche giorno, per vedere come si mettevano le cose. Si misero malissimo: si sviluppò la setticemia, l’infezione contro la quale allora non esisteva alcuna arma. Il giovane ciclista morì il 31 marzo 1926, dieci giorni dopo avere vinto la Coppa Caldirola, a meno di due mesi dal Giro d’Italia.

Il suo compagno, Zaverio Nava, non si fece nulla. Vent’anni dopo, appena finita la Seconda Guerra Mondiale, Nava pedalava in fondo a un gruppo di veterani, al ritorno da una passeggiata, verso Cenate. Sopraggiunse un camioncino che non lo vide perché stava facendo buio: il ciclista venne travolto, morì sul colpo.

Storie lontane, eppure vicine. Storie che non si sono perdute grazie agli articoli dei cronisti di quel tempo, e grazie al lavoro di un grande giornalista, Aurelio Locati, che tante di quelle vicende ha raccolto nella sua grande opera “Cent’anni di sport a Bergamo”, apparsa a fine Anni Ottanta del Novecento.

La storia di Bendoni e Nava getta una luce impietosa sulla vita. Sì, questa è la vita. Ma questa è anche la maledizione degli autisti distratti, non abbastanza coscienziosi che ancora oggi, come un tempo, percorrono le nostre strade.

Paolo Aresi

Paolo Aresi

Paolo Aresi – giornalista e scrittore.
Dal 2015 cura la rubrica “#AMOLABICI, le Cicloctorie di Paolo Aresi” sul sito www.bicitv.it.
Il ciclismo è una sua grande passione, ha trascorso l’infanzia tifando Felice Gimondi.
Pedala con una certa energia, ma il poco tempo a disposizione lo penalizza.